[one_third] Zia Ponina [/one_third] [one_third] Zia Ponina al pianoforte [/one_third] [one_third_last] Zia Ponina e la figlia Aurora [/one_third_last]
[bra_border_divider top=’10’ bottom=’20’]
Orta, 3 ottobre 1904 – Alpignano, 9 aprile 1997
[bra_divider height=’10’]
Zia Ponina è la zia di mia madre. In verità si chiamava Giuditta Tallone Ciliberti, ma tutti i suoi amici più cari la chiamavano Ponina.
Pianista precoce e di grande talento, suscita l’ammirazione di Miecio Horszowski e di Cesare Pavese, che tiene con lei nel 1929 un carteggio epistolare.
Sposa nel 1932 Franco Ciliberti, docente di filosofia e teorico dell’arte, fondatore nel 1941 del movimento e della rivista “Valori primordiali” e amico carissimo di Filippo Tommaso Marinetti e di Massimo Bontempelli. Con lui Ponina conduce la Galleria Ciliberti di Milano frequentata tra gli altri, da Carrà, De Chirico, Sironi, Munari, Chighine, Francese, Quasimodo, oltre che dal mecenate torinese Antonio Gualino. Frequenta gli artisti vicini al marito Ciliberti, il “Gruppo di Como”, tra cui Radice, Licini, Bonfanti.
Nel 1946, rimasta vedova, inizia a disegnare a Como e dal ’48 al ’90, espone a Milano. Userà sempre soltanto il bianco e nero con una sensibilità vicina a quegli artisti che aveva frequentato col marito e continuerà a frequentare .
Domina uno stile preciso, meditato e sintetico, di matematica e lirica misura come era la sua natura musicale. La sua carriera durerà 44 anni, fino al 1990.
Il padre Cesare Tallone era un pittore e la madre Eleonora Tango una poetessa. Il fratello Guido ha seguito le orme del padre, il fratello Cesare Augusto era un famoso liutaio e produttore di pianoforti, Ermanno antiquario e gallerista e Alberto fu editore e stampatore.
[bra_divider height=’10’]
L’ultima volta che la vidi risale a una ventina d’anni fa, nella casa dove abitava, ad Alpignano. Era seduta al pianoforte con un gatto nero che le gironzolava intorno. Aveva i capelli color argento e un golf di lana che l’avvolgeva. Ricordo le sue mani nodose e le sue esili dita che tentavano di schiacciare i tasti bianchi e neri del pianoforte. Faceva molta fatica. Era anziana e non aveva più forza nelle mani. La musica a stento usciva come avrebbe desiderato. Tuttavia quando mi vide entrare nella stanza fece un accordo potente in segno di gioia e poi con un sorriso mi accolse nella sua dimora. Quella fu l’unica e ultima volta che la vidi.
Era insieme a sua figlia Aurora. Vivevano insieme e si tenevano compagnia, come si può intuire dai loro dialoghi. Aurora continuai a frequentarla fino a due anni fa. Come ogni anno, nel giorno dei morti, mi mettevo in viaggio per andare a salutare mia nonna sepolta nel cimitero di Alpignano. Passavo a prendere Aurora e insieme andavamo a salutare i nostri defunti. All’entrata del cimitero compravamo sempre dei fiori colorati. Dopo il consueto cerimoniale, fatto di silenzi, preghiere, aneddoti su parenti mai conosciuti e rumore di passi sul selciato, andavamo a pranzare in un modesto ristorante gestito da cinesi. Dopo pranzo ci salutavamo e ci abbracciavamo con affetto. Io tornavo alla mia vita di Milano e lei tornava dai suoi cinque gatti. Due anni fa, in un giorno di metà novembre, ricevetti una telefonata. Aurora era morta. L’avevano trovata di mattina con la testa riversa sul tavolo della cucina, con una mela in mano. Così se n’è andata. Di mattina. Senza alcun preavviso. Pronta per fare colazione. Con una mela in mano.
Qualche mese fa, in un giorno di sole, presi la macchina e cominciai a girare per Milano senza una meta precisa. Poi imboccai la Milano-Torino. Uscii ad Alpignano. Andai al cimitero. Chiesi alla fiorista se sapeva dove era sepolta una certa Aurora Ciliberti. Mi sorrise e mi disse che lo sapeva perché anche lei si chiamava Aurora. Mi indicò la strada per raggiungere la sezione nuova del cimitero. Entrai al cimitero con due fiori colorati in mano. Salutai mia nonna e Zia Ponina e lasciai il primo fiore in un vaso. Poco dopo mi diressi verso la sezione nuova. Camminai fra una lapide e l’altra alla ricerca del viso di Aurora. Vidi moltissime fotografie di persone sconosciute, volti, date. D’improvviso scorsi Aurora e mi fermai. Restai qualche minuto davanti al marmo grigio, in silenzio, meditando su quanto è meravigliosa e sorprendente la vita. Poi andai alla ricerca di un annaffiatoio. Un ragazzo giovane che stava rassettando una lapide mi passò il suo. Diedi l’acqua ai fiori sulla lapide di Aurora e, già che c’ero, anche ai fiori dei suoi vicini di tomba. Dopo qualche minuto riportai l’annaffiatoio al ragazzo e mi diressi verso l’uscita, accompagnato dal rumore dei passi sul selciato.